Nel plenilunio d’inizio
estate del 1609, a Roma, il pittore tedesco Adam Elsheimer puntò gli occhi nel terso cielo della città, prese
una tavoletta di rame e dipinse un bellissimo notturno, La fuga in Egitto. A sinistra da un falò acceso dai pastori le
faville sprizzano verso l’alto, al di sopra di un bosco scuro, quasi
trasformandosi nelle linee luminosissime della Via Lattea che splende nel cielo
trapunto di costellazioni. A destra una splendida luna tonda come una frittella
si specchia in un corso d’acqua, sdoppiandosi e illuminando Maria, Giuseppe e
Gesù con l’asinello.
A guardar bene, quella
luna ha qualcosa di straordinario: per la prima volta nella storia è stata
raffigurata con assoluta esattezza, con le sue macchie oceaniche, i suoi monti
e i suoi laghi, rugosa e bitorzoluta, “ineguale, scabra e con molte cavità e
sporgenze, non diversamente dalla faccia della Terra”, come pochi giorni più
tardi la vede a Padova Galileo Galilei,
che così la descriverà, nel marzo 1610, in un libretto intitolato Sidereus Nuncius. In gita a Venezia, nel
giugno 1609, Galilei ha comprato uno dei primi cannocchiali costruiti in Olanda
e decantati come meraviglie magiche dai mercanti in giro per l’Europa; un altro
esemplare dev’essere finito nelle mani di Elsheimer. E così un artista prima e
un genio della scienza e della tecnica poco dopo guardano con occhi nuovi
l’antichissimo, eterno cielo stellato, scoprendone e rappresentandone in forme
impensate la sconfinata dimensione e il complesso movimento planetario.
Da pochi anni nelle chiese
romane erano sbocciate alcune tele destinate a cambiare il modo di ritrarre la
realtà: le aveva dipinte il lombardo Caravaggio,
un artista di talento superlativo, che trasponeva sulla tela un nuovo modo di
guardare le piccole cose di ogni giorno e di osservare la vastità
imperscrutabile delle tenebre che sembrano corroderle: la visibilità del mondo,
dopo di lui, diviene una lotta furiosa fra luce e ombra.
Nell’ombra notturna gli
scienziati si tuffano per indagare l’universo con strumenti sempre più
sofisticati e precisi, disintegrando le idee e le immagini millenarie della
cosmologia tolemaica, chiusa e circolare, e svelando e misurando invece con
esattezza crescente un cosmo in espansione ben oltre i confini del sistema
solare, un mondo “infinito e uno” come lo aveva descritto il filosofo Giordano Bruno, bruciato per questa e
altre eretiche teorie a Roma nel febbraio del 1600.
Il secolo barocco si apre
con il rogo di Campo de’ Fiori e con la luna scientifica di Elsheimer e di
Galilei, con i corpi di Caravaggio, veri, concreti, impastati di carne e di
buio. Il circolo mirabile dell’universo, che per tutta l’antichità e il
Medioevo aveva fatto coincidere la perfezione di Dio e del suo creato, si
deforma e si tende verso l’ellisse, la
nuova forma simbolica che domina il pensiero e l’arte del Seicento.
Galileo, dominato dal
paradigma del cerchio, resiste ad accettare i suoi stessi calcoli matematici e
astronomici, che gli dimostrano il moto ellittico dei pianeti intorno al sole.
Ma ellittico è il disegno del colonnato di Piazza San Pietro, in cui Bernini raffigura l’inedito universo
galileiano; ed ellittiche sono anche le piante delle chiese e delle cupole di Borromini. Ellittico, multicentrico,
sarà anche il più noto poema dell’epoca: l’Adone
di Giambattista Marino.
Gian Lorenzo Bernini - San Pietro
L’IMMAGINARIO BAROCCO
Tradizionalmente connotato
per il fasto eccessivo, per la rappresentazione stravagante, per gli orpelli e
la decorazione eccentrica, e in generale per una manifestazione tutta esteriore
destinata a suscitare la sorpresa e
la meraviglia dell’osservatore,
l’immaginario barocco rivela in realtà implicazioni ben più profonde e
rivoluzionarie: comporta una diversa percezione dello spazio e del tempo, e
quindi del movimento, e una conseguente trasformazione delle immagini della
realtà; produce una nuova iconografia dell’universo.
Le grandi scoperte
geografiche, nel corso del Cinquecento, avevano allargato i confini del mondo.
Nel Seicento, l’osservazione del cosmo e le scoperte scientifiche decretano il
definitivo e irreversibile declino del disegno tolemaico del cosmo circolare:
lo svelamento dell’orbita ellittica dei pianeti dilata e deforma la circolarità
delle sfere celesti e la dilatazione del cerchio produce un progressivo allontanamento
dal centro. La più ardita espressione di questa tensione a travalicare il
limite della sfera è espressa dal filosofo Giordano Bruno, che osò formulare
una domanda decisiva: “Come può l’universo essere finito?”
Corrisponde a questa nuova
visione del cosmo la tendenza alla dilatazione
e alla deformazione dello spazio,
che informa di sé le realizzazioni estetiche barocche. La forma rompe la sua
staticità e si fa mutevole, cangiante. Ma questa mutevolezza rivela anche che
il mondo naturale è in movimento incessante e soggetto a continua mutazione. A
questa viva percezione del movimento e del dinamismo delle forme si accompagna
una lancinante consapevolezza della
fugacità del tempo: ogni volta che una forma muta diventando altra, la
forma originaria muore. L’uomo barocco ha chiarissimo il sentimento di questa
fragilità dell’essere e lo rappresenta attraverso gli oggetti: le nature morte,
i teschi, gli orologi e soprattutto le rovine, relitti di un tempo ormai
trascorso e consumato.
Claesz Pieter - Natura morta
Galileo Galilei – Sidereus Nuncius
È
un breve trattato di
astronomia pubblicato nel
1610, che rende conto delle rivoluzionarie osservazioni e scoperte compiute dallo scienziato pisano con l’uso
di un cannocchiale (o telescopio
galileiano), perfezionato per l’occorrenza. Il titolo dell’opera è traducibile
come “messaggero celeste”, e si riferisce appunto alle radicali novità,
rispetto alla cosmologia aristotelica e tolemaica, che il libro portava con sé.
Galileo
presenta e riassume le scoperte effettuate nei mesi precedenti con l’uso di un
cannocchiale rivolto al cielo per delle osservazioni notturne.
La
prima grande novità è relativa alla superficie
della luna, che secondo la fisica e la cosmologia tradizionali,
ancorate al principio di
autorità e all’ossequio alla
teoria geocentirca tolemaica, doveva essere liscia e perfetta come una sfera.
In realtà Galileo nota, grazie alle macchie e le ombre prodotte dal Sole, che
la crosta della luna è aspera et
inaequali, cioè “scabra e
disuguale, con rilievi di diverse altezze”, e che non è poi tanto dissimile da
alcuni monti terrestri.
La
seconda rivelazione galileiana riguarda le stelle
fisse, che ad un esame analitico si rivelano essere molte di più del
numero convenzionale tradizionalmente accettato; ciò spezza la rappresentazione
dell’universo come un insieme compiuto, ordinato e limitato di astri, tutti
noti all’occhio umano.
Come
terzo punto, lo scienziato spiega che la Via
Lattea è “nient’altro che una
congerie di innumerevoli Stelle, disseminate a mucchi; ché in qualunque regione
di essa si diriga il cannocchiale, subito una ingente folla di Stelle si
presenta alla vista, delle quali parecchi si vedono abbastanza grandi e molto
distinte; ma la moltitudine delle piccole è del tutto inesplorabile”.
L’esistenza di nebulose ed ammassi distinti di stelle è un chiaro indizio che
l’universo è ben più ampio di quanto creduto finora.
Ultima
novità fondamentale è la scoperta dei quattro
satelliti “medicei” (nominati
così in onore di Cosimo II) orbitanti attorno a Giove; l’esistenza di corpi con un centro di rotazione diverso da quello della Terra (che Claudio Tolomeo
immaginava al centro del sistema solare) è un pesantissimo argomento a favore
della teoria copernicana.
Il Sidereus Nuncius è allora un punto fondamentale nella storia delle idee occidentale: il metodo galileiano applicato
al “libro della natura”, come dirà nel Saggiatore,
getta le basi per la moderna
ricerca scientifica, fatta di prove, esperimenti e verifica sperimentale
di dati, strumenti, risultati raggiunti.
Nessun commento:
Posta un commento